lunedì 28 luglio 2014

Non ci sono più scuse

Un paio di settimane fa sul Corriere della Sera è stato pubblicato un articolo che raccontava del recente matrimonio a Roma tra due persone con sindrome di Down. Se dall'articolo si fossero tolti i riferimenti alla sindrome di Down, si sarebbe trattato di un resoconto di un matrimonio come tanti, a partire dall'innamoramento fino alla relazione stabile, alla volontà di sposarsi, ai dubbi sul lavoro e sulla casa. Molti di noi, seppur nella unicità di ogni storia personale e di coppia, hanno attraversato questi momenti con tutte le gioie e difficoltà del caso. E ancora una settimana prima sempre sul Corriere della Sera all'interno della pagina milanese che raccoglieva le storie di alcuni maturati col massimo dei voti di quest'anno, c'era anche quella di un ragazzo con sindrome di Down che raccontava come è riuscito in questo importante traguardo: anche qui come gli altri con un misto di orgoglio, felicità e fatica. Cosa ci insegnano questi due racconti, queste storie per fortuna non uniche ma ancora rare? Ci insegnano che le persone con sindrome di Down possono raggiungere quegli stessi traguardi cui ambiscono tutti. Che non è solo una questione di diritti: diritti che sono chiaramente sanciti in ogni ambito legislativo, anche se purtroppo spesso dimenticati se non addirittura osteggiati. E' questione di fare in modo che le persone con sindrome di Down, con disabilità intellettiva in genere, siano realmente messe in grado di riuscire a raggiungere quegli obiettivi di vita adulta pienamente riconosciuta, il più possibile autonoma e contributiva secondo le possibilità di ciascuno al bene di tutta la società. Per arrivare ai risultati delle storie sopra raccontate è necessario che la persona con sindrome di Down sia adeguatamente accompagnata sin dalla nascita. Che sia accompagnata da persone competenti e giustamente accoglienti insieme alla sua famiglia, genitori e fratelli in primis, e nel rapporto con tutte le realtà locali, scolastiche, culturali, sportive, religiose, di svago con cui viene a contatto nella propria vita. Non ci sono più scuse per continuare in una politica di intricati assistenzialismi socio sanitari incapace nei fatti a soddisfare le reali esigenze delle persone con sindrome di Down che in ogni età, dalla nascita alla scuola, alle autonomie adolescenziali, al lavoro, alla residenzialità chiedono una cosa sola: lasciateci vivere come siamo capaci ed aiutateci a farlo al meglio per il bene di tutti. Per raggiungere tali obbiettivi, la piena realizzazione di ognuno, è fondamentale e necessario che le istituzioni nazionali, regionali e locali rivedano il piano di Welfare nel senso di un forte e sostanziale aiuto alla persona con sindrome di Down e alle loro famiglie sin dalla nascita e per tutta la loro vita. Che vengano potenziati gli enti istituzionali, vedi le Uompia, e si riconosca efficacemente – senza burocratici accreditamenti o altre pastoie analoghe - l'enorme lavoro e competenza del mondo associazionistico, cooperativo e ogni altra forma del terzo settore che già ora e da sempre sono attori fondamentali ma in totale affanno economico, facendo ricadere sulle famiglie costi economici e di risorse difficilmente sostenibili sul lungo periodo. Che appunto le famiglie siano supportate e agevolate con sgravi fiscali, con adeguati vaucher a libero utilizzo, con efficaci agevolazioni lavorative, arrivando fino alla possibilità di prepensionamento realmente agevolato per stare accanto ai propri figli proprio quando da adulti e finito il loro percorso scolastico – altro grande argomento da ribaltare totalmente sin dalle primarie all'alternanza scuola lavoro se non oltre – sono ' a casa' senza sostegni famigliari o istituzionali. E tutto questo, e quant'altro, anche solo dal punto di vista del bilancio economico avrebbe un vantaggio per le casse istituzionali: molti meno soldi buttati nella gestione della residenzialità protetta nel lungo periodo a costi altissimi, che per le persone con sindrome di Down e disabilità intellettiva correttamente accompagnate - fondamentale presupposto - in un progetto di vita, sempre nel rispetto delle possibilità di ciascuno, è inadeguata in quanto per la gran parte per lo meno semi-autonome; e molte più persone con sindrome di Down lavorerebbero (altro tema grave da rivedere: l'obbligo assuntivo per le aziende): lavoro reale non 'terapeutico' con stipendio reale e reali contributi (da agevolare) allo Stato che permetta una vita vera e vissuta insieme a chi ciascuno liberamente deciderà di stare, con o senza sindrome di Down, sempre se all'interno di un progetto accompagnato e pienamente supportato. Non ci sono più scuse, non si può più dire: poverini tanto non ce la faranno mai. Se non ce la fanno è perché non si è dato loro la possibilità di farcela. E quando non si danno le possibilità di realizzazione ad un insieme di persone, una sola terribile parola mi viene in mente: discriminazione.

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